Hikaru Mori
11 marzo 2009
Davide Turrini: Hikaru Mori, giapponese, dopo la laurea e il dottorato di ricerca all’università di Tokio, si trasferisce in Italia dove, dal 1993, si occupa parallelamente di architettura e di design. Cosa rimane nei suoi progetti della cultura orientale a cui sono legate le sue origini e gli anni della sua formazione?
Hikaru Mori: ho sempre cercato di trovare uno stile che fosse del tutto personale e originale, ma senza dubbio, nel mio modo di concepire l’architettura e il design il rigore della forma e l’attenzione per il dettaglio sono aspetti che vanno ricondotti alla mia cultura d’origine.
Un ulteriore tema della tradizione abitativa giapponese che mi è particolarmente caro è quello dell’integrazione della natura nel costruito: è per questo che nelle mie realizzazioni cerco sempre di stabilire un forte legame tra gli spazi interni e quelli esterni, attraverso la creazione di aperture, di rimandi visivi sul paesaggio circostante, di ambienti connettivi quali logge e patii che possano agire da filtro per un passaggio graduale tra una situazione e l’altra, e che possano portare almeno un frammento di natura nel cuore dell’architettura.
D.T.: i modelli estetici e filosofici della cultura giapponese, e più in generale dell’Oriente, da alcuni anni hanno conquistato un grande spazio nel nostro gusto. Perché secondo lei l’Occidente sente l’esigenza di avvicinarsi al vostro modo di apprezzare i materiali, di pensare gli oggetti d’uso e di abitare gli spazi?
H.M.: il fenomeno dell’apprezzamento della cultura orientale si è ripetuto ciclicamente nella storia dell’Occidente, basti pensare al gusto per le cineserie che si diffonde in Europa dalla metà del Settecento, o ai trionfi orientaleggianti che caratterizzano molte realizzazioni dell’Eclettismo ottocentesco. Oggi la gente si avvicina non solo all’estetica ma, soprattutto, allo stile di vita dell’Oriente, alla ricerca di un modello alternativo per affrontare la quotidianità, per trovare nuove pause, per scoprire gli spazi che le filosofie orientali lasciano alla meditazione, alla cura del corpo e della spiritualità, e tutto ciò passa anche attraverso il ripensamento di certi oggetti di uso comune, o degli ambienti della casa.
Anche il Giappone vive la frenesia della modernità eppure, anche in una metropoli come Tokio, che rappresenta forse uno degli scenari urbani più rappresentativi della società globale del terzo millennio, si possono trovare spazi fisici e temporali per un nuovo stile di vita, grazie al quale l’individuo si riappropria di una dimensione intima e riflessiva, basata su modelli esistenziali ed estetici che dal dopoguerra ad oggi la nostra antica cultura ha saputo mantenere e reinterpretare in senso contemporaneo.
D.T.: nel campo del design, dopo aver progettato Adam, un sistema multifunzionale di corpi illuminanti, è approdata all’ideazione di Stone Likes Water, collezione di elementi per il bagno in pietra naturale che ha firmato per PIBA Marmi. Può parlarci di questa esperienza?
H.M.: è ancora una volta la mia cultura d’origine a tornare in Stone Likes Water, una linea pensata per dare piacere al corpo nel contatto con la pietra e con l’acqua: tutto ciò è un omaggio alla cultura del termalismo giapponese, fatta di numerosissimi siti in cui l’attività vulcanica caratteristica delle isole dell’arcipelago fa scaturire acque calde e vapori naturali dalle proprietà benefiche. Sia vicino alle coste che nei paesaggi fluviali o di montagna del mio Paese si trovano quindi piccoli edifici termali, dove il rapporto con la natura è forte e pregnante; questi stabilimenti sono generalmente caratterizzati dalle forme dell’architettura tradizionale nipponica e sono realizzati in legno, con vasche di pietra - principalmente di granito locale - collocate negli interni e anche all’esterno.
È poi importante sottolineare che la collezione disegnata per PIBA Marmi si configura in modo del tutto innovativo come un sistema coordinato e articolato per risolvere tutto l’ambiente bagno, dalla realizzazione del rivestimento, alla scelta e alla collocazione delle unità tecniche di lavabi, vasche e piatti doccia, fino al posizionamento di accessori quali mensole e bocche in pietra per la fuoriuscita dell’acqua che possono essere integrate nei rivestimenti e nei sanitari. Penso sempre ad un design che non concepisca solo il singolo oggetto, o la famiglia di oggetti, ma che possa configurare l’interezza di uno spazio, definito dalle superfici che lo delimitano e dalle presenze tridimensionali che lo qualificano.
D.T.: tra le sue principali realizzazioni di architettura ricordiamo la cantina Feudi di San Gregorio nei pressi di Avellino e la cantina Bisceglia a Potenza. Come si è accostata alla progettazione di questi edifici la cui tipologia ha conosciuto negli ultimi anni una mutazione sostanziale?
H.M.: a stimolarmi maggiormente nell’affrontare questi temi progettuali è stata proprio la trasformazione che in poco tempo ha portato le cantine a presentarsi come veri e propri complessi multifunzionali aperti, nei quali, accanto agli spazi per la produzione e lo stoccaggio del vino, si trovano ambienti dedicati alla comunicazione e alla commercializzazione del prodotto: dalle più semplici sale per accogliere i clienti e per le degustazioni, fino a spazi per conferenze, eventi culturali o a veri e propri ristoranti e foresterie.
Sempre più spesso oggi il potenziale cliente vuole poi visitare le catene produttive e stare seduto nella cantina, assaggiando il vino e vedendo il paesaggio dei vigneti circostanti: così, ancora una volta, ho concepito spazi messi in relazione da traguardi visivi, aprendo il più possibile l’architettura ad un rapporto diretto con l’esterno, creando insomma una struttura basata sull’integrazione e non sulla separazione; inutile dire che, anche in questo caso, la cultura delle mie origini ha rappresentato un riferimento fondamentale.
di Davide Turrini